Socialità sostenibile

2021-02-25T08:29:57+01:00Febbraio 15, 2021|20(21) grammi, Food|

Nascosto nel quartiere di Greco, in un angolo che non ti aspetti della città rimasto – per ora – fuori dai ritmi tipici della socialità milanese, c’è Altatto. Un bistrot di alta cucina vegetariana e vegana, nato da un team giovanissimo e (quasi) tutto al femminile, che ha fatto della sostenibilità il suo DNA. Se la ristorazione è stato uno dei settori più colpiti dalle restrizioni imposte dalla pandemia, Giulia, Sara, Cinzia, Caterina e Agostino hanno saputo sperimentare e cambiare pelle più volte senza mai scendere a compromessi rispetto alla loro identità.

A differenza di chi si è solo affidato alla delivery, voi vi siete reinventate con i piatti da ultimare a casa nel primo lockdown, il Baretto quest’estate, la schiscetta e le nuove conserve in questi ultimissimi mesi… Quali sono i motivi? E quali sono state le vostre ispirazioni?
Tutto è nato dal bisogno concreto di doverlo fare, che ci ha spinte a trovare di volta in volta una soluzione in base alle esigenze del momento. E a pensare poi di mantenerle, almeno alcune. L’idea del Baretto, ad esempio, non ci sarebbe forse venuta in mente, ma questo dover trovare delle soluzioni alla fine si è trasformato in un modo creativo per battere delle strade alternative.
Durante il primo lockdown le persone avevano energia da incanalare e, di conseguenza, voglia di cucinare: noi ci siamo chieste come non fare una “banale” delivery – dove le cose non arrivano mai come vorresti per le difficoltà insite nel trasporto – e così l’abbiamo ibridata con le lezioni di cucina. Ci è sembrata un’idea che ci permetteva di stare vicine ai nostri clienti, che ci scrivevano e ci chiedevano consigli.
L’esperienza si è esaurita con la secondo “fase” in cui le persone non vedevano l’ora di uscire. Grazie alle concessioni (siamo in primavera/estate 2020 ndr), alla riapertura abbiamo aperto anche il Baretto. Nonostante siamo un po’ decentrate, è stata un’occasione per far scoprire alle persone un posto un po’ nascosto e segreto, lontano dalla calca dei soliti locali e delle solite vie. Si è allargata la cerchia di chi ci veniva a trovare e che finiva per passare una serata intera a Greco, tra il prima o il dopo cena, senza tornare subito a NoLo o a Porta Venezia. In più, anche se siamo qui da 7 anni, l’esperimento del Baretto ha avvicinato il quartiere. La nostra è una realtà un po’ particolare: tanti si avvicinavano, sbirciavano ma non avevano il coraggio di prenotare. I tavoli fuori ci hanno permesso di rompere le diffidenze ed entrare più in relazione con la comunità.
Quando siamo tornati in lockdown (siamo in autunno 2020 ndr), il ritmo di vita e la voglia di cucinare delle persone erano decisamente cambiati. Abbiamo iniziato a interrogarci sull’enorme quantità di rifiuti prodotta con l’aumento della delivery (anche se noi siamo già plastic free) e da qui è nata la schiscetta, che ha qualcosa della tradizione italiana ma anche di quella indiana e ci permette rimanere coerenti con la nostra filosofia improntata alla sostenibilità.
In definitiva il fil rouge che ci ha guidate è stato mantenere la nostra identità, cercando anche di capire, di volta in volta, il mood delle persone per approcciarci a loro nel modo migliore, senza mai smettere di sperimentare.

C’è qualcosa che “salvereste” da questo periodo per portarla con voi nella nuova normalità?
La pandemia ha cambiato le abitudini rispetto all’esperienza comune della ristorazione e anche se molte persone non vedono l’ora di tornare a mangiare fuori, alcuni nuovi modi di vivere la ritualità intorno al cibo rimarranno. Per quello che ci riguarda, di tutto ciò che abbiamo messo in campo in questi mesi, porteremmo con noi sicuramente la schiscetta e il Baretto, ovviamente avendone la possibilità. Noi siamo una realtà piccola e tutto quello che esce passa dalle nostre mani: per noi la sostenibilità sta anche in questo. Il Baretto è stata un’esperienza divertente e sarebbe bello farne anche una versione invernale affittando un negozio qui vicino. Non ci dispiacerebbe portare avanti anche la schiscetta come idea di delivery sostenibile per chi non ha voglia di venire al ristorante o vuole mangiare a pranzo quando siamo chiuse, perché no.

Avete parlato tanto dei vostri clienti, qual è cosa più bella che vi è capitata in questo anno di sperimentazioni e trasformazioni?
Ci ha colpito moltissimo vedere come le persone che venivano qui a mangiare si siano affezionate a noi anche umanamente e ci abbiano sostenute in tutti passaggi. Come bistrot la nostra realtà è nuova e avevamo la paura di essere “dimenticate”. Invece i nostri clienti sono rimasti fedeli, tanti ordinano tutte le settimane. Abbiamo preso il nostro tempo per mettere in pista le iniziative, per prendere decisioni collettive e condivise, e tanti clienti ci chiedevano:
Ma allora? Cosa fate?”
“Un attimo, ci stiamo pensando! :)
Oppure: “Ma siete aperti?”
“No, siamo in zona arancione!”
Comunque sentire il sostegno delle persone è stato bellissimo.

Le parole su cui la ristorazione dovrebbe puntare una volta usciti dall’emergenza?
Di sicuro “sostenibilità”. Sappiamo che è una parola abusata, ma è al centro del nostro lavoro: dalla scelta vegetariana ai materiali che abbiamo scelto per il bistrot, dalla fascia di cotone per i capelli da tenere in cucina alla macchina che usiamo per le consegne, tutto deve rientrare in questa coerenza. Noi cuochi, noi ristoratori abbiamo una grande responsabilità nei confronti dei nostri clienti, dei produttori, di chi vuole prendere ispirazione. Del resto quello che è successo nell’ultimo anno a livello globale non è così slegato dalla mancanza di cura e di rispetto verso il pianeta e ora che le persone si sono fermate, hanno riflettuto, speriamo che compreranno sempre di più ciò che è convincente e credibile dal punto di vista della responsabilità sociale e imprenditoriale. Perché ad esempio devo “sfruttare” un rider quando abbiamo le nostre persone in cassa integrazione a cui poter offrire qualcosa da fare, come le consegne. La responsabilità e il rispetto del lavoro e delle persone passano anche da qui.
E qui veniamo al “fattore umano”, Altatto è un posto pensato per essere condiviso, a partire dai tavoli. La nostra speranza è che si torni alla socialità, alle persone che si incontrano a cena perché sono vicini di tavolo e fanno amicizia. Come succedeva prima qui da noi. Questo ci manca anche umanamente e speriamo che la ristorazione possa tornare a promuovere queste forme di socialità “collettiva”.

Siete un ristorante vegetariano (come lo siamo noi del Breakfast Club). Oggi questo tema sembra ancora più strategico parlando di futuro. Pensate crescerà l’attenzione delle persone verso questo tipo di scelta?
L’attenzione in realtà è già cresciuta: se pensiamo al Joia dove ci siamo conosciute e abbiamo lavorato tutte noi, 32 anni fa quando ha aperto è stato un vero pioniere. Vero che cucinava anche pesce, ma ai tempi era impensabile uno stellato Michelin senza il foie gras!
Il percepito pure è cambiato rispetto a quando abbiamo aperto noi 7 anni fa: prima ad esempio, ci chiamavano per il catering e ci chiedevano di cucinare anche qualcosa con la carne o con il pesce – e noi dicevamo sempre di no. Adesso non è più così. Chi ci sceglie sa il perché e ci apprezza anche per la nostra scelta.
Al bistrot oggi la maggior parte delle persone che vengono sono onnivore, ma apprezzano la cucina e tornano: questo per noi è un segnale che ci sono meno pregiudizi. Comunque è sempre il “fidanzato” quello più sospettoso nelle coppie di clienti: spesso sono più le amiche che ci scelgono, una tavolata di maschi è un’eccezione per ora da Altatto!
In realtà ci sono tanti vegetariani uomini, anche se il nostro è un ristorante con un pubblico a maggioranza femminile, forse anche perché siamo un team tutto di donne. Può essere che in Italia il vegetarianesimo per l’uomo sia ancora un tabù: chi non lo conosce, pensa che sia una cucina per forza più leggera o sana, ma non è così. Puoi essere vegetariano e mangiare tutti i giorni fritto!
Comunque sicuramente abbiamo fatto molti passi in avanti, anche a livello statistico.

Il vostro comfort food per eccellenza della pandemia?
Dovete sapere che noi prepariamo tutte le mattine gli ordini per i clienti e poi prepariamo un po’ di più di quello che ci piace! Ad esempio il pad thai o i bao per noi 5 sono sempre “avanzati”. Paradossalmente per noi sono i piatti più elaborati, particolari e in genere orientali che a casa non abbiamo voglia di fare.

E il piatto per celebrare il ritorno alla vita sociale?
Sicuramente un piatto che si possa mangiare tutti insieme, magari da una ciotola. Ad esempio il dhaal indiano che si mangi direttamente col pane, senza paura delle mani degli altri.

Mai più senza…?
Sicuramente non la mascherina! Invece mai più senza viaggiare, fare un weekend fuori al mare, in montagna. Noi milanesi questa cosa l’abbiamo patita, in due ore siamo ovunque, ma da “quarentenati” Milano, che è una città che amiamo, a volte è soffocante.
Quindi possiamo dire in conclusione: mai più senza spazi!