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2020-12-10T13:18:52+01:00Novembre 26, 2020|20(21) grammi, Storie|

Matteo Daffi è un amico del Breakfast Club, ma è anche un pubblicitario, un musicista e  uno scrittore: così ci ha regalato, non un’intervista, ma un racconto inedito da pubblicare. Un intermezzo che parla dei (20)21 grammi come meglio non si poteva fare.
Anche le foto – di una città sospesa, che potrebbe essere un po’ ovunque – sono un regalo, questa volta da parte di una delle nostre pagine Facebook preferite: Alessan-DDR-ia
Buona lettura e buona visione!

Il neurologo alla scrivania è intento a battere sulla tastiera, un dito alla volta, il quadro clinico della paziente di fronte e quasi non si accorge dell’esplosione. Un po’ perché è sordo e un po’ perché ha quella rara capacità di isolarsi in ciò che fa.
La paziente però il botto lo sente, eccome.

Omioddio, strilla sobbalzando dallo schienale curvo di una di quelle sedie da clinica che a volte hai l’impressione si possano spezzare di punto in bianco.

Che succede signora?
Non ha sentito? Era uno scoppio, un’esplosione. Qualsiasi cosa fosse, era qualcosa di grosso.
Ne è proprio sicura?

L’eco degli allarmi delle auto in sosta qualche piano sotto è la prova inconfutabile che qualcosa è accaduto e ha coinvolto tutto il vicinato.

La bocciofila nel parco vede due anziani signori spazzolare rigorosamente il terreno per liberarlo da qualsiasi foglia, sasso, bacca o chissacché possa interferire con le traiettorie tanto studiate delle loro bocce professionali. Il botto è così forte che le prese energiche degli anziani mollano il manico e lasciano che le scope cadano a terra.
I due signori si guardano, consci dell’eccezionalità dell’evento. Non dicono nulla, basta un’occhiata per accordarsi su una rapida ritirata dal campo di gioco.

Lo sbuffo costante del riscaldamento del pallone pressostatico attutisce il boato. A confondere contribuiscono anche gli schiocchi delle palline che viaggiano ad alta intensità.

Sono scambi pesanti da fondocampo fra due tenniste che non hanno alcuna intenzione di interrompersi, perché il match è nel vivo e il punteggio molto equilibrato.

Il campo dista parecchi chilometri dall’epicentro dello scoppio, ma un folto gruppo di persone si raccoglie per strada proprio fuori dal pallone, allarmate dalla deflagrazione.
Le due tenniste concluderanno il proprio match prima di rendersi conto del disastro.

In casa c’è un nuovo ospite, uno splendido cucciolo di British Shorthair e i due fratellini da un paio di giorni non riescono a staccargli gli occhi di dosso. Se lo passano come fosse un pupazzetto, incantati dallo sguardo ipnotico dell’animale. Stranamente il gatto sta al gioco.
Pochi istanti prima del botto il cucciolo si divincola graffiando uno dei fratellini e scappa sotto la cassettiera del salotto.

I bimbi fanno giusto in tempo a infilare la testa sotto il mobile per cercare di capire perché il gatto sia fuggito terrorizzato, prima che l’esplosione frantumi i doppivetri delle finestre trasformando la stanza in una tempesta di cristallo.

C’è un momento nell’età evolutiva in cui i ricordi si fissano, i gusti si definiscono, l’identità si forma. La musica che ascolti in quel periodo della tua vita è la musica che consideri autentica, quella a cui ti leghi indissolubilmente e che condiziona le tue scelte consapevolmente oppure no. Non c’è molto che tu possa fare, se non riconoscere il tuo genere e tuttalpiù rimanere aperto all’ascolto di tutto ciò che verrà, conscio del fatto che tolta qualche rara eccezione, le canzoni che ti emozioneranno di più saranno sempre quelle con cui sei cresciuto.

Quando la centrale esplose dando il via al più grande disastro ecologico della città, i cittadini si schierarono in due fazioni opposte: quelli che subito pensarono che niente sarebbe mai stato come prima e quelli che si adattarono, seppur nostalgicamente, alla situazione e si concentrarono per capire cosa sarebbe stato di lì in poi.

Molti si rintanarono in casa, seguendo le indicazioni delle autorità locali. Finestre serrate, stracci bagnati alla base degli stipiti per riparare dagli spifferi tossici e si rinchiusero in un riserbo decoroso, nella speranza che il fumo, le scorie, i detriti e i liquidi non lasciassero un segno permanente sul suolo della città.

Altri si dotarono di maschere antigas, tute isolanti e uscirono nel tentativo di conciliare questa nuova dimensione con una normalità sfuggita in un secondo, per un difetto meccanico dell’impianto, che a volerlo riparare sarebbero bastati pochi centesimi.

I numeri del disastro, come tempestivamente ribadirono i media locali e nazionali, crescevano di ora in ora seminando panico e sfiducia tra cittadini e visitatori. Questi ultimi poi, si trovarono in una situazione paradossale per cui non potevano tornare a casa finché non fossero chiari gli effetti della contaminazione.

Respinti dai paesi d’origine e sospesi in alloggi di fortuna o camere d’albergo, avevano davvero poco in cui trovare conforto.

Le congregazioni locali si attivarono repentinamente, invitando la comunità a raccogliersi in preghiera, per quanto questi momenti di raccoglimento sembrassero artefatti, visto che i luoghi di culto erano impraticabili e ci si doveva affidare a celebrazioni virtuali.

Per lo meno, pensava qualche scaltro utilitarista, abbiamo i responsabili su cui rivalerci, ma date le condizioni, questa blanda rivendicazione perdeva di senso.

Chi avrebbe risarcito chi?
Che senso ha pensare al risarcimento, quando non c’è più nulla su cui ricostruire. Se niente sarà più come prima, ha forse senso investire tempo e risorse per ripristinare una normalità che non esiste più? In nome di cosa?

In sostanza, quella che era diventata una presenza silente nella città senza che nessuno ci facesse caso, ora si era trasformata in un problema vitale.
Sembrerà strano che nessuno si fosse mai chiesto perché la centrale fosse stata costruita lì in mezzo.
In effetti molti se l’erano chiesto, e tanti gruppi di protesta erano stati sedati da panegirici sulla necessità di dare lavoro alle persone.
I politici più intransigenti erano stati silenziati con la promessa di cariche ancora più prestigiose.
Come accade spesso, la discussione era scemata gradualmente, accomodata dagli interessi prevalenti.

Chi ci lavorava, di sicuro borbottava, ma poi lo stipendio a fine mese gli faceva comodo.
Chi abitava vicino si lamentava degli odori innaturali e del vapore sospetto, ma certo il prezzo delle case in zona era più che accessibile.
Chi ci aveva investito dei soldi aveva qualche rimorso di coscienza, ma alla fine era un affare redditizio.
 

D’improvviso si resero conto più o meno tutti (tranne quelli barricati e totalmente reclusi per la paura di essere contaminati) di aver nutrito un mostro nel cuore della città.
Inutile prendersela con la centrale. La centrale faceva il suo mestiere.
Fu dura da mandar giù, ma la risposta era che i cittadini avrebbero dovuto prendersela con se stessi: con me, con te, con lui, con lei, con noi, con voi, con loro.

Se fossimo così bravi a riconoscere i nostri errori, ad ammetterli, se accettassimo in anticipo di aver fatto scelte scorrette o di aver intrapreso la strada sbagliata, allora non falliremmo mai. Ma è davvero una cosa rara.
Più spesso, quasi sempre, ci barrichiamo in difesa di posizioni insostenibili anche dopo esserci accorti dell’errore.

Semplicemente per la paura che ammettere uno sbaglio metta a repentaglio la presunta credibilità che ci siamo faticosamente costruiti.

E così gli errori si sommano.

Gli sbagli e l’omertà dei singoli si stratificano in colpe collettive; la responsabilità di ciascuno si assottiglia fino a rendere incorreggibili gli errori commessi. E questo fu il caso dello scoppio della centrale e delle sue conseguenze.

Di cos’è fatta una città?
Cosa anima la vita in un luogo pensato per l’uomo e costruito dall’uomo?

Dopo giorni concitati e carichi di preoccupazione, in un nuovo provvisorio equilibrio fatto di regole da inventare e timori sulle prospettive future, un’impressione colse più o meno tutti quasi contemporaneamente. Fu la sensazione che la città si fosse zittita.
Dove prima correvano file d’auto tra strombazzi di clacson e sgasate isteriche ora regnava una quiete irreale. I luoghi affollati, il vociare scomposto di migliaia di persone al telefono, nei negozi, sugli autobus, per strada, in classe, nei luoghi di lavoro. Ovunque regnava un silenzio abissale e l’eco di un’era geologica solo immaginata.

Faceva impressione, ma non sembrava innaturale.

E come ci si adatta al rumore, così ci si adattò anche al silenzio.

La città divenne immediatamente più discreta. Il tono delle persone nelle case, i volumi dei canali in streaming si abbassarono gradualmente.
Iniziarono a spuntare i primi ciuffi d’erba sull’asfalto.
La primavera non si arrestò.
Le piante fiorirono, la vegetazione continuò imperterrita.

Nel silenzio, come aveva sempre fatto.

Solo che prima non se n’era accorto nessuno.