Di origine catalana ma trapiantata a Milano, Montserrat Fernandez Blanco si occupa da 15 anni di produzione culturale tra fisico e digitale, oggetto anche del suo dottorato. Tra i progetti più recenti ha portato in Italia le Fuckup Nights, un format di eventi e un movimento per cambiare la visione collettiva del fallimento.
La cosa più bella che hai visto succedere durante il lockdown?
La capacità che abbiamo avuto di riuscire a vivere insieme, a distanza, ricreando online esperienze di convivenza quotidiana.
Io, ad esempio, ho costruito con la mia figlioccia di 12 anni una vita “diffusa”, grazie alle tecnologie. La smart school ha totalmente dematerializzato il contatto umano a cui era abituata in classe: lei non vedeva i suoi compagni e la professoressa non vedeva lei. La sua soluzione ingegnosa è stata iniziare a chiamarmi durante le lezioni per coinvolgermi come spettatrice attiva: a parte la cultura sulla storia italiana che mi sono fatta, commentavamo le spiegazioni, riportando una dimensione personale intorno a questa strana versione di scuola.
Da qui, si è aperto un mondo di modi alternativi per passare del tempo insieme: dal fare coreografie per i suoi canali social a guardare le saghe su Netflix, è stato un attimo creare nuove tradizioni digitali di vita condivisa.
Una cosa completamente diversa che si potrebbe (o dovrebbe) fare, nel tuo campo professionale, tornando alla vita quotidiana (anche, ma non solo, per superare i postumi del lockdown)?
Il mondo della produzione culturale è molto progressista nelle tematiche che affronta, ma molto conservatore nei mezzi che utilizza, a partire dal coinvolgimento del pubblico. La scarsa partecipazione a un evento culturale è in genere attribuita a una mancata comprensione del pubblico verso la cultura, mai viceversa, come accade invece in tutti gli altri settori produttivi dove il fallimento di un prodotto diventa oggetto di una critica interna e non dei consumatori. Il lockdown è stata una grande occasione per le istituzioni culturali per prendere coscienza della propria inadeguatezza digitale: il web può essere un palcoscenico meraviglioso, ma bisogna essere capaci di progettarlo e gestirlo.
Se fino a questo momento la cultura ha pensato all’online come a un mondo distante di cui potersi non occupare, il Covid-19 lo ha rimesso pesantemente al centro. Cosa offrire al pubblico fuori dagli spazi fisici? Come coinvolgere nuove fasce d’età?
Quando ho raccontato alla mia figlioccia che sto lavorando con il Teatro Donizetti per avvicinare i giovani all’opera, come prima cosa mi ha chiesto: “Cosa fate su TikTok?” – Condensata nella voce della verità di una bambina, questa è la nostra sfida: guardare i contenuti culturali da un altro punto di vista, quello di chi vive costantemente immerso nel digitale e ha fatto del web il proprio palcoscenico.
Una cosa completamente diversa che si potrebbe (o dovrebbe) fare, a livello di comunità?
L’architettura all’inizio del ‘900 fu molto influenzata dalle malattie diffuse all’epoca: le scuole avevano intere pareti finestrate per favorire il ricambio dell’aria e la celebre forma della sedia progettata da Le Corbusier deve la sua origine al tentativo di ridurre l’accumulo di polvere, veicolo di diffusione della tubercolosi.
Allo stesso modo, questa pandemia ci ha portato a ripensare i nostri spazi: sempre di più stiamo e dovremo rivalutare la dimensione pubblica, organizzandola in base alle attività che dal chiuso stiamo trasferendo all’aperto. La Spagna ad esempio è un Paese dove ci si trova sempre in piazza e una delle prime cose che mi ha stupito trasferendomi a Milano è stata proprio la mancanza di panchine e fontane.
Il distanziamento sociale ci sta facendo recuperare quartieri e strade, non più luoghi di semplice passaggio ma anche di scambio e solidarietà. A Dergano dove abito sono spuntate durante il lockdown le ceste per condividere lievito madre: l’immagine perfetta dell’italianità.
La vera sfida sarà dall’autunno, quando il meteo non ci permetterà di sfruttare così tanto piazze e vie: lì sarà fondamentale per le piccole realtà di quartiere allargare i propri spazi oltre alla dimensione fisica, sfruttando il digitale non per replicare contenuti ma per offrire qualcosa di diverso, in più.
L’istantanea che ti ha lasciato più a bocca aperta (in positivo e in negativo) di questo 2020?
Come catalana, l’istantanea che più mi ha colpito in positivo è stata la capacità degli spagnoli di rispettare il lockdown e lo stesso posso dire per affinità degli italiani.
Come professionista nella ricerca di fallimenti sono rimasta invece stupita in negativo dalle risposte immediate prodotte nel mezzo del più evidente fallimento degli ultimi anni: già dal secondo giorno di lockdown abbiamo iniziato a leggere articoli su “Come vivere al meglio la quarantena”, senza che la società contemporanea ne avesse mai vissuta una, o su “Cosa ci aspetta nel futuro”, prima ancora di aver capito cosa stesse succedendo nel presente. Come si può riflettere e pensare in tempo zero a una soluzione a un problema per cui non eravamo pronti?
Le Fuckup Nights mi hanno insegnato questo: quando c’è una difficoltà, fermati e datti il tempo. Tutti abbiamo corso verso possibili scenari alternativi, in fuga da una quotidianità scomoda e incerta, invece di rimanere nel silenzio, ascoltarci e osservare cosa ci stesse capitando dentro.
Tre parole nuove su cui puntare?
In realtà ne ho una sola che però mi piace tantissimo ed è Promessa, che significa lanciare qualcosa verso il futuro. Adesso potrebbe essere un bel momento per farci ognuno una promessa verso il futuro.
Al party di capodanno del 2021 puoi portare 3 persone: chi sono?
Sicuramente la mia figlioccia.
A parte lei, dalle Fuckup Nights ho preso l’abitudine di chiedermi chi tra i nuovi speaker conosciuti porto con me nel nuovo anno, come parametro di quanto si è arricchita nel frattempo la mia vita. Sempre di più mi accorgo della fortuna che ho, grazie alle FUN, di entrare in contatto con persone straordinarie (come Chris Richmond N’zi di Mygrants). Una delle ultime è Sarah Harnisch Amatuzio, art director che ha lavorato tra gli altri per Oprah Winfrey, dopo essersi lasciata alle spalle una possibile carriera come cantante. Con lei condivido quello che per me è l’unico vero fallimento: rinunciare per paura. Tutto il resto non sono fallimenti, ma solo provare. Fare un capodanno con lei sarebbe divertentissimo.
E poi Sofia Borri, argentina di nascita trapiantata a Milano, con cui ho parlato a lungo del linguaggio, diffuso tantissimo negli ultimi mesi, che ci vuole tutti guerrieri di fronte alle difficoltà: non siamo nell’Iliade e il successo non si misura in battaglia.
Mai più senza…?
Toccarsi.
E poi avere persone accanto durante la malattia o peggio ancora la morte. Morire da soli è una delle cose più terribili che possa succedere e che questa pandemia ci ha lasciato.
La mancanza di contatto umano è una vera violenza.