Filosofo, esperto di immagini, neo Vicedirettore dell’Accademia di Brera di Milano dove insegna Filosofia dell’arte e Fenomenologia delle arti contemporanee, Federico Ferrari è una delle voci più autorevoli del panorama filosofico europeo. Nel gennaio 2020 ha fondato, insieme ad altri studiosi, la rivista online Antinomie. Con lui abbiamo parlato delle arti al tempo della pandemia e, citando Paolo Conte, “dell’illusione di capire, con l’arte, il vivere e il morire”.
Si è parlato tantissimo di come l’arte (e lo spettacolo) siano state colpiti dalla pandemia, da un punto di vista economico (musei, teatri, cinema, chiusi, ecc.). Meno, ci sembra, di come l’arte abbiamo letto e interpretato quello che sta succedendo. Lo ha fatto? E se sì, come?
Il discorso è complesso. Da una parte c’è un gravissimo problema economico che riguarda le strutture che permettono la visibilità dell’arte. Vi faccio un esempio: dall’inizio della pandemia fino a novembre 2020, negli Stati Uniti, i musei – che a differenza di quelli europei sono quasi tutti privati – hanno perso quasi 30 miliardi di dollari. La crisi è così grave che i musei americani, che hanno come regola etica di non vendere opere della collezione se non per acquistarne di nuove, nell’ultimo anno hanno iniziato a vendere opere su opere perché vicini alla bancarotta. E questa situazione di crisi profonda non ha coinvolto solo per i musei, ma anche i teatri, chi produce musica, ecc., migliaia e migliaia di persone in cassa integrazione o peggio senza lavoro. Sul versante dell’arte e degli artisti, invece, è difficile capire al momento se ci sia già stata una riflessione sul momento pandemico. Ci sono stati diversi diari della pandemia. Diversi scrittori hanno pubblicato libri “sfruttando” il momento e il soggetto “pandemia”, e però, al di là dell’atto diaristico, si tratta di scritture che non hanno detto nulla di innovativo rispetto alle conseguenze di una pandemia, intesa come crisi profonda di una civiltà globale in cui si è percepito con estrema evidenza che non siamo più in un’epoca di scontri di civiltà (la globalizzazione, l’Occidentalizzazione, ecc.), ma in un’epoca in cui appare, per la prima volta, una civiltà umana e una dimensione storica in cui non esiste un destino di nazioni ma un destino umano, con tutto quello che ciò comporta. Ecco, ho l’impressione che questa esperienza di un passaggio di civiltà non sia ancora entrata nell’arte, almeno di quella che possiamo vedere dato che il primo punto (musei chiusi, gallerie e teatri chiusi, ecc.) forse impedisce ancora di scorgere il secondo, le ripercussioni della pandemia sulle arti e sulla sensibilità degli artisti.
Il digitale sta dilagando in tutti i settori a una velocità impensabile prima del Covid-19. Tu hai scritto un pezzo molto “attento” su arte e social network. Ma davvero non c’è nulla di buono? È impossibile secondo te, banalizzando, essere un artista del web? O almeno pensare al fatto che i social aiutano giovani di talento a trovare un pubblico che altrimenti non avrebbero?
Anche qui ci sono due fenomeni distinti. L’affermazione dei social network e di Instagram come social visivo naturalmente è indipendente e precede la pandemia. La mia riflessione non era tanto sul fatto che la pandemia abbia spinto verso la digitalizzazione dell’arte (e non credo abbia influito più di tanto su questo), la questione che ponevo nell’articolo è che un social network come Instagram è un sistema industrializzato dell’immagine che ti inserisce all’interno di una gabbia – non tanto o non solo in senso metaforico ma nel senso “tecnico” del design –, una gabbia dentro la quale puoi produrre solo determinate tipologie di immagini. Come insegna McLuhan il medium è il messaggio e quindi, se hai un unico medium, questo crea un appiattimento e un’omogeneità dell’immagine. E questo è abbastanza inquietante, anche perché la “gabbia” è invisibile ed estremamente piacevole: tutti noi scrolliamo Instagram e molti di noi vi inseriscono immagini. Per scomodare un altro grande teorico dei mezzi di comunicazione come Debord, una sua nota massima può facilmente essere così parafrasata: se appari su Instagram esisti, altrimenti non esisti, tutto ciò che è buono appare su Instagram e tutto ciò che non appare vuol dire che non è buono. E quando un mezzo di comunicazione diventa predominante, monopolistico quasi, diventa inquietante perché esclude tutto ciò che non vuole o non può rientrare in quel mezzo. Questo è un problema che riguarda più in generale quello che oggi gli studiosi chiamano il visuale, per distinguerlo dal visivo nel senso stretto delle arti, e che rappresenta invece il grande mondo delle immagini. Ecco bisogna capire in che cosa ci si è immessi quando si è entrati nel visuale inteso come sistema di produzione industriale delle immagini e che effetti questo abbia prodotto e sempre più produca nella produzione stessa delle immagini, che diventano omogenee, standardizzate. Come direbbe in modo chiarificatore un pensatore che non amo particolarmente, Slavoj Žižek, la libertà che ci resta – all’interno di questo sistema di produzione dell’immaginario – è quella di scegliere tra la Coca e la Pepsi; Instagram permette di scegliere tra il filtro moon e quello lark, però non credo che sia questa la via per creare delle immagini, per produrle sì, anche in modo efficace ed efficiente. Resta fuori appunto il problema della creazione che, a mio modo di vedere, è il problema di ogni artista, e che richiede una libertà compositiva che i social non danno. E non dimentichiamoci che per le nuove generazioni Instagram è una “roba da vecchi”, se pensiamo a TikTok lì la gabbia diventa ancora più inquietante e alienante: è la riproduzione di video seriali virali dove ognuno rifà la stessa cosa che ha già fatto un altro; è una sorta di riproduzione seriale dell’identico che evidenzia quello che Instagram già fa, ovvero riprodurre sempre le stesse immagini, per cui io vado in vacanza e faccio le fotografie che ho visto su Instagram e poi le ripubblico, con un riconoscimento reciproco, non della realtà ma delle immagini. Va bene, ma bisogna averne consapevolezza.
Lavorando nella comunicazione e nei servizi digitali e facendolo quasi solo a distanza, a volte si ha l’impressione che il mondo reale non esista più. In questo contesto ha ancora senso fare una lettura critica dell’immagine? O anche solo parlare di immagine vs. mondo? Esiste ancora qualcosa che NON lo sia? Insomma, ci siamo “giocati” la realtà?
Questa è la grande questione, anche angosciante, in cui siamo coinvolti e senza una vera risposta. Non credo che si possa dire che ci siamo “giocati la realtà”, perché la realtà l’abbiamo, apparentemente inalienabile, in quello che siamo: è vero che adesso – io e voi – ci vediamo in un video, ma io allo stesso tempo sento fame, sento male a una gamba… La realtà del mio corpo, almeno per ora, è ineliminabile. Ma è vero, però, che la tendenza, ad esempio nel mondo del lavoro, sembra essere quella di un distanziamento dal reale, anche perché questo porta con sé vantaggi economici e produttivi (ad esempio costa meno non pagare più l’affitto di una sede per le aziende). Resta da capire se, qualora questa situazione eccezionale divenisse la norma, le persone non vadano letteralmente fuori di testa. Il sistema di ottimizzazione del lavoro considera le persone come macchine, come mezzi di produzione, come capitale umano che può essere più o meno produttivo, ma una persona ha una psiche, una conoscenza e degli affetti e se tu la chiudi in casa per dieci anni, facendole vedere gli altri solo attraverso dei video, può essere che questa persona vada in depressione e che diventi meno creativa e performante, qualunque sia il suo lavoro. A questo tema “economico” si aggiunge la paura ossessiva della morte che tutti abbiamo e che si è evidenziato con la pandemia. Se sommi gli interessi economico-produttivi e la paura, tutto questo crea le condizioni affinché quello che stiamo vivendo da un anno – vivere in casa, impauriti – sia possibile. Io ho l’impressione che questa situazione finirà. Certo se chiedi agli “scienziati” (e non ho ben capito da quando i medici siano diventati “scienziati”!) loro dicono che dobbiamo stare tutti in casa, ma questo è il loro punto di vista specialistico per abbattere i rischi, per far sì che il minor numero possibili di organismi umani subiscano attacchi e generino patologie. Ma questa vita preservata, questa vita immune, alla lunga non è una vita, non ha i tratti di un’esistenza felice. La realtà quindi la puoi perdere solo se rinunci alla realtà, alla vita; se accetti l’idea di una vita smaterializzata, senza realtà. Io credo che per una generazione di persone adulte questo sia impossibile, a un certo punto, se questa situazione perdurasse eccessivamente, le persone uscirebbero di casa, non scambierebbero la propria sopravvivenza per la vita, per una vita reale. Bisogna, invece, comprendere cosa succederà ai bambini, che crescono in un mondo di mascherine e divieti. Se nel momento formativo l’imprinting è che l’Altro, inteso come tutto ciò che non sono io, è un pericolo, non so che effetti potrà avere sui bambini una simile idea, anzi una simile esperienza dell’alterità del mondo. Questo è terribile perché per noi adulti l’altro non è un pericolo, o quantomeno non solo, per noi l’altro è anche una forma infinita di meraviglia e di stupore. Ma se tu sommi l’esperienza terribile che i bambini hanno vissuto alla xenofobia dilagante che già c’era prima della pandemia, questo può essere un serio motivo di preoccupazione perché l’altro, in una società futura, potrebbe diventare il male, il pericolo per la mia immunità e per la mia vita.
Leggevamo da poco in un tuo post che nella vita ti occupi di guardare immagini, qual è quella che consideri più rappresentativa dell’anno che abbiamo vissuto?
Un’immagine che sicuramente mi ha colpito molto, anche perché eravamo all’inizio della pandemia, è quella dei carri militari che uscivano da Bergamo per trasportare i morti. È un’immagine molto iconica, molto potente: la dissoluzione della ritualità della morte (i corpi sottratti al compianto dei familiari), ma è anche una nuova ritualità mediatizzata. E, a ben guardare, anche un esempio di possibilità di partecipazione al reale attraverso la digitalizzazione. Alcuni complottisti che sostengono che sia una messa in scena: ecco se lo è, è messa in scena bene. È un’immagine di grande pathos, che fa sentire di partecipare a un destino comune.
Ci rimane qualcosa di buono da “portarci via” da tutto questo? Qualcosa che ti ha sorpreso positivamente…
Credo ci sia molto di buono da portarsi via. Una privazione ti rende più caro quello di cui ti sei privato. Ti faccio un esempio: da quattro mesi sono Vicedirettore dell’Accademia di Brera. L’Accademia, per via dei suoi esigui spazi, ha dovuto sospendere la didattica. Questa sospensione ha reso a tutti, studenti e docenti, evidente che l’arte si fa con le mani, che non puoi far vedere un quadro o un disegno su Zoom, perché non vedrai la texture, il segno… ma nemmeno una fotografia puoi mostrarla veramente su Zoom se è una foto stampata. Questo ha reso evidente a tutti che esiste una realtà dell’arte che è fisica. Ecco questa è una esperienza che ci porteremo dietro per tutta la vita. I giovani artisti, che hanno dovuto privarsi dei laboratori, capiranno e ricorderanno per sempre quanto è bello poter mettere le mani nella creta piuttosto che avere la polvere di marmo addosso o sentire la puzza della trementina che tanto aveva in odio Marcel Duchamp. Così come ognuno di noi si porterà dietro la gioia infinita di stare con le persone care a cui ha dovuto rinunciare per via della pandemia.
In situazioni con conseguenze così estreme sulla sfera psicologica ed emotiva, l’arte può avere secondo te un potere in qualche modo curativo? E se sì, quali iniziative potrebbero essere prese per rendere l’arte (più) accessibile come cura sociale?
È una domanda complessa la tua, da una parte il fatto che l’arte abbia una funzione curativa, di salvezza, è una tesi che da tempo si sostiene e la cui espressione più famosa è la frase di Dostoevskij la bellezza salverà il mondo. Tutti noi lo speriamo, anche se ci sono forti dubbi che sia così. Però è vero che l’arte, nelle sue varie forme, ha degli elementi che permettono di trovare un senso a ciò che nella vita vissuta ci sfugge. L’arte ha una grande capacità di far vedere, di far sentire: è un sapere che va oltre la razionalità, ma che mi permette appunto di sapere, di conoscere delle cose di me e del mondo che un discorso razionale non mi potrebbe mai far capire. Come diceva Wittgenstein nel Tractatus una volta che anche tutti i problemi della scienza fossero risolti il senso della vita rimarrebbe intoccato. L’accesso alle opere d’arte è quindi una possibilità di redenzione o di salvezza o di accesso a ciò che la semplice e necessaria razionalizzazione della vita non permette. Potremmo dire, la scienza ci preserva ma non ci cura e ancor meno ci salva. L’accesso alle opere d’arte, però, pone molte questioni diverse per le diverse arti. Le arti, infatti, sono molto diverse tra di loro, e se per la letteratura è più semplice, basta che tu abbia un libro o un Kindle, per i quadri non è così, non puoi guardarli su Google. Per questo, ad esempio, lascia forti dubbi la proposta del Ministro Franceschini sul “Netflix della cultura” che mette online i musei. Va benissimo creare reti di informazione e di promozione, ma non è la stessa cosa avere delle informazioni su un’opera d’arte e fare esperienza di un’opera d’arte. Non è che quando sei giù ti colleghi online con la Pinacoteca di Brera, ti guardi le immagini dei quadri sul pc e ti senti meglio… anzi probabilmente ti senti più depresso di prima! Quindi, se esiste un elemento salvifico o terapeutico dell’arte, credo che questo ancora una volta nasca da un’esperienza, un’esperienza a contatto, in presenza. La presenza che la letteratura crea sta nelle parole e quindi riesco a fruirne ovunque, quella delle immagini dell’arte credo stia in quel rapporto auratico – per usare il termine di Banjamin – con un’opera qui e ora, un rapporto contemplativo, di profonda empatia. Benjamin descrive questo rapporto e la sua scomparsa al tempo dell’Opera d’arte della sua riproducibilità tecnica, ma in confronto a noi quella da lui descritta è una cosa da ragazzi. Lui pensava alle riviste illustrate e al cinema, come mezzi di diffusione dell’arte; noi, oggi, abbiamo accesso costantemente all’intero patrimonio dell’umanità, ma non confondiamo questa fruizione con l’irripetibile presenza dell’opera. Non a caso, in questo periodo di chiusura delle istituzioni, aspettiamo che i musei aprano una settimana per correre alla Pinacoteca e avere – finalmente – questo rapporto con una presenza, con la presenza dell’opera. E immaginiamoci come un tale effetto si amplifichi con la danza, con il teatro o con la musica: è una buona cosa poter ascoltare la musica nelle cuffie, ma dal vivo è un’altra esperienza: vedere il musicista, il pubblico, sentirsi parte di una vibrazione comune. Non dobbiamo buttare via le cuffie o il cellulare, ma bisogna essere consapevoli che sono cose diverse. Le esperienze più profonde sono sempre esperienze che prevedono una presenza. Il sentimento di empatia e straniamento lo senti con quello che vedi in presenza – un oggetto, il danzatore, un quadro – ed è quello che ti salva, nel senso che ti fa uscire dalla tua singolarità e ti porta verso l’altro. Oltre di te c’è l’altro, questa è la salvezza. In questo senso l’arte è l’esperienza profana della religione, dell’alterità assoluta: oltre me, c’è altra vita.
Immagine in testa: Hiromu Kira, The Thinker, c. 1930 (photo location: The Hollywood Reservoir Dam, Los Angeles)