Una vita che rimbalza tra Prato e il sud del mondo, Lorenzo Giorgi è co-fondatore e CEO di Glocal Impact Network. Da anni si occupa di progetti di sviluppo internazionale e di innovazione sostenibile attraverso un approccio low-tech applicato al campo dell’energia, dell’agricoltura e dello sviluppo delle zone rurali. Tornato alla provincia toscana dopo un mese in Senegal, ci siamo fatti raccontare com’è stato l’ultimo anno nel continente africano, lontano dai media – e dagli stereotipi – occidentali.
Il 2020 e anche parte di questo 2021 li abbiamo passati ai “box”. Cos’è successo ai progetti di sviluppo nel “sud del mondo”?
Per quanto riguarda il modello di sviluppo di Glocal Impact Network non è cambiato pressoché niente perché eravamo già abituati a lavorare in smart working. Il problema è che il nostro è un lavoro dove poi devi essere in giro per il mondo. Soprattutto se si parla di trasferimento di conoscenza e tecnologia. In realtà, ci sono tante piattaforme per condividere tecnologie in open source, ma l’innovazione che segue questi modelli e poi attecchisce sul territorio è ben poca. Il nostro lavoro si fa ascoltando: l’80% di un progetto è in presenza, con una piccola parte di sviluppo e il resto di attuazione. Per questo, quando ci è venuta a mancare la possibilità di viaggiare, il lavoro si è davvero bloccato per i primi mesi, insieme alla vendita di progetti di Corporate Social Responsibility per le aziende. L’impatto è stato forte perché le popolazioni avevano estrema necessità dei progetti che avevamo in corso in ambito energetico. Fortunatamente però l’approccio che abbiamo portato avanti negli anni ha funzionato: avendo insegnato alle persone come autocostruirsi le tecnologie, è stato possibile sopperire alla nostra mancanza sul territorio grazie a chi avevamo formate in precedenza e così abbiamo cominciato a illuminare cliniche rurali, e non solo. Chiaramente ci sono stati tanti errori in più, perché non riuscivamo a controllare molto bene a distanza la filiera d’intervento.
Anche sull’agricoltura siamo riusciti a portare avanti un progetto di ricerca in Kenya completamente seduti sul divano. È stato un grandissimo risultato, frutto dell’aver investito negli ultimi 5 anni sulla trasmissione della conoscenza: se non avessimo gettato delle basi in precedenza, sarebbe stato impossibile. Tra l’altro i risultati emersi abbiamo poi potuto applicarli in un progetto in Senegal, dove siamo tornati dopo un anno di stop a marzo 2021.
Lavorando con culture diverse, soprattutto le necessità cambiano in maniera repentina, ma il modello che abbiamo costruito come Glocal Impact Network si è rivelato vincente.
Abbiamo scelto di non cambiare core business, anche quando tutti hanno iniziato a dirottarsi su progetti digitali. A parte i servizi dedicati alle aziende, rispetto alla vision dei nostri progetti non è cambiato assolutamente niente. Per noi la trasmissione degli strumenti e della conoscenza si fa in presenza, vivendo con le persone con cui andiamo a lavorare.
Esiste un modello di sviluppo propriamente africano o di altre zone del mondo? Qualcosa insomma che rappresenti un’alternativa a quello occidentale che si fonda prevalentemente sulla crescita economica? Le nostre conoscenze hanno davvero la dignità per essere trasferite? A che risultati portano effettivamente?
Vivendo in Occidente e avendo un approccio alla vita occidentale, penso che la cosa importante sia cominciare davvero a pensare a lungo termine e ad accettare, la dico un po’ forte, che il mio intervento nel mondo, la mia conoscenza sul mondo, non impatterà nessuno sopra i vent’anni. Devo accettare a livello tecnico e progettuale che tutti gli over 20 non possano rientrare nel mio progetto d’innovazione del mondo. È una provocazione, ma quando progettiamo pensiamo alla fasce che ancora devono nascere. Questo perché la nostra conoscenza non può aiutare chi ha più di venti o trent’anni: manca il tempo tecnico necessario per fare progettazione e creare un impatto a lungo termine sulla loro esistenza. Il nostro approccio è scegliere di avere il tempo per progettare: per cercare di generare degli impatti locali si deve ascoltare il luogo in cui si va a lavorare, analizzare il modello di vita locale, che nei Paesi africani prevede un livello di appartenenza e crescita comunitaria a partire dal basso che in Occidente non abbiamo.
A parte quando bisogna rispondere a delle emergenze, i risultati nel brevissimo tempo sono una forma di assistenzialismo. È molto cinico questo approccio, lo riconosco, però dobbiamo valutare l’effort che dedichiamo, quante persone andrà ad aiutare, e dobbiamo essere bravi a offrire, anche con un senso di responsabilità, la nostra conoscenza e gli strumenti che abbiamo per rispondere ai bisogni che le persone hanno tenendo conto del loro sguardo sulla vita.
Ad esempio rispetto al contesto del Covid-19, non possiamo progettare soluzioni secondo l’importanza che noi diamo alla vita e il nostro legame che abbiamo con la morte, perché nei Paesi africani sono completamente diversi. Nelle zone rurali incontravo persone che mi dicevano “è morto mio cugino di Covid a 25 anni. Se Allah ha voluto così, lui è in paradiso e sta meglio di noi”. Sembrano cose banali ma ti fanno capire che la mediazione culturale è fondamentale, anche nel campo del trasferimento tecnologico e per individuare le metodologie migliori per relazionarci e costruire rapporti sociali a livello locale. Come occidentali dobbiamo abbracciare al 100% i loro bisogni per riuscire a fare progettazione.
La pandemia ha aumentato le disuguaglianze economiche e sociali, mostrando quanto l’accessibilità di servizi, infrastrutture, cure (compresi i vaccini) non sia affatto scontata. Che impatto ha avuto sul sud del mondo e su regioni come quella africana? Visto l’approccio che ci hai raccontato, ha senso parlarne in questi termini?
C’è un forte dibattito all’interno della comunità internazionale legato alla donazione dei vaccini. Ma tra il donare i vaccini e aprire impianti open source per la produzione di vaccini c’è una grandissima differenza. Perché donare i vaccini significa attivare la cooperazione internazionale come è sempre stata fatta, cioè dall’alto al basso; impiantare produzioni vaccinali o aprire in maniera open source i brevetti dei vaccini è tutt’altra cosa. Già questa differenza di approcci non è indifferente, e non ho tutte le competenze per intervenire, anche se la questione è ancora apertissima.
Noi abbiamo subito analizzato non tanto la propagazione del virus nel sud del mondo – anche se eravamo sempre in contatto con i nostri PM in Africa e seguivamo con particolare attenzione il caso di India e Brasile da marzo dell’anno scorso, ma come i Paesi africani gestivano la situazione del punto di vista di chiusure e aperture e delle relazioni internazionali. Ad esempio, il Madagascar, in cui dovevamo andare a luglio 2020, è ancora chiuso e non si può entrare, mentre il Senegal, uno dei Paesi più ricchi in Africa o comunque più in crescita, a un certo punto ha dovuto per forza aprire perché altrimenti avrebbe perso la spinta di crescita che negli ultimi anni lo ha contraddistinto.
Certo, i dati sono importanti: in Senegal fanno circa 1500 tamponi al giorno in tutta la nazione e di conseguenza i numeri sono bassi, ma il tasso di positività è comunque del 6%. Tra l’altro il Covid-19 viene monitorato solo nelle grandi città come Dakar, dove il 40-50% è portato dall’esterno, mentre nelle zone rurali non vengono raccolti dati. Lavorando in quelle aree ci siamo accorti che non è che non sono interessati alla malattia, ma che purtroppo ci sono problemi più urgenti da gestire. Quando abbiamo fatto le riunioni con i beneficiari dei nostri progetti, con i farmer, ci hanno detto “non abbiamo più acqua per coltivare i nostri terreni, le nostre terre hanno una salinità altissima, abbiamo grossi problemi di accesso agli alimenti, e quindi non è il Covid il primo problema”. I pulmini strapieni nelle zone rurali così come il resto della situazione economica e sociale è il frutto delle politiche attuate degli ultimi 50 anni, che non consentono oggi né di gestire né mappare la diffusione della pandemia – del resto non ci siamo riusciti molto neanche in Italia!
Di conseguenza, le nazioni più povere sono riuscite ad avere il “lusso” di restare chiuse, mentre le nazioni più ricche che dipendono dagli scambi internazionali hanno dovuto per forza riaprire perché non potevano permettersi di fare altrimenti. Perciò, per assurdo, è vero che il Covid ha aumentato le diseguaglianze, ma ha avuto gli impatti più alti in quelle nazioni che hanno legato la propria crescita ai rapporti commerciali con la Cina e l’Europa.
In Europa, Stati Uniti, etc. la stampa ci bombarda con (dis)informazioni sul Covid-19. C’è il mese del Brasile, quello dell’India… Ma cosa raccontano i media africani? Che percezione si ha dall’interno?
In Senegal o in altri Paesi in cui stiamo lavorando c’è sicuramente meno presenza del Covid-19 nella narrativa quotidiana, anche perché ci sono nazioni come la Costa d’Avorio dove ci sono state malattie tipo l’ebola che hanno avuto un impatto molto più devastante rispetto al Covid-19, anche se non sono diventate pandemie, con un tasso di mortalità molto più alto. C’è in generale una percezione molto diversa dalla nostra: un po’ per gli effetti inferiori rispetto a quelli che temevamo a marzo scorso, anche grazie alle forti chiusure africane che sono riuscite a contenere il virus; un po’ per le categorie di giudizio e l’approccio culturale radicalmente differente che hanno le popolazioni africane rispetto a noi occidentali.
Parlando di stereotipi, L’Africa è un continente poco raccontato e molto stereotipato. 3 parole che non vorresti più sentire e 3 parole che vorresti sentir dire di più a proposito di questa terra?
Partiamo subito da quelle “no”. Non vorrei più sentire parlare di beneficenza, di impatto sociale, di frontiere. Cerco di spiegare il perché.
Non vorrei più sentir parlare di frontiere perché per noi sono il vero blocco al trasferimento delle idee. Le idee senza le persone che le portano in giro non sono niente: la tecnologia che io sviluppo, se non ci sono poi persone con forti capacità, anche manageriali, è inutile. Credo davvero in un mondo senza frontiere, vedendo quanto l’Africa ha un grosso problema con le frontiere interne al continente: noi vediamo l’Africa come un blocco solo, ma in realtà le persone non si possono muovere come noi facciamo in Occidente e questo è uno dei grandi impedimenti allo sviluppo.
La seconda parola è beneficenza, perché la beneficenza ci pone in una realtà antica e che imposta il lavoro dall’alto al basso e questo non ci appartiene.
Io ad esempio ho un capo filippino, del sud del mondo, ed è bellissimo pur con tutti gli scontri che questo comporta dal punto di vista culturale. Siamo un’azienda che si pone tra il profit, il no-profit e la ricerca scientifica e lavoriamo per il sud del mondo con un approccio orientato all’ascolto dei bisogni delle persone: per noi la beneficenza non esiste perché per creare sviluppo bisogna creare nuove professionalità dandogli un valore pari a quello del profit per uscire da un linguaggio vecchio.
L’ultima parola “no” è impatto sociale perché è diventato un trend, si parla di impatto sociale per tutto e oramai non lo sopporto più. Noi ci siamo passati, e quando stai in loop tendi a dare per scontato il linguaggio, come qualche anno fa quando si parlava di impatto ambientale: se un progetto non aveva impatto ambientale era sbagliato, ora lo è se non ha impatto sociale. Noi invece lavoriamo mixando l’impatto economico, sociale e ambientale, riconoscendo che a volte l’impatto ambientale è carente, perché devi intervenire in maniera urgente e devi fare delle scelte. Quando il marketing ha abbracciato la sostenibilità e l’impatto sociale sono diventati dei trend: da un lato ha aiutato a promuovere questi temi, dall’altro c’è stato però un appiattimento della progettualità e del livello di profondità dei lavori e si sono accorciati i tempi richiesti per produrre un impatto. Quelli che avevamo accettato dover essere lunghi per portare e creare vera innovazione e fare in modo che le popolazioni abbracciassero davvero un cambiamento sono stati accorciati, con una qualità del lavoro molto più bassa.
Le tre parole che vorrei si sentissero di più sono innovazione perché in Africa è un campo su cui non si investe ancora abbastanza, non solo dal punto di vista della tecnologia.
Poi c’è Il tema dell’accessibilità, inteso a 360°: l’accessibilità, infatti, è ciò che permette all’innovazione e al cambiamento di penetrare nelle comunità. Possiamo avere tanta tecnologia e progetti interessanti, ma se non diamo la possibilità di accedere alle persone non abbiamo ancora niente. Le persone devono avere accesso alle tecnologie e ai luoghi decisionali, anche politici.
L’ultima parola è l’empatia: vorrei che si lavorasse molto di più sull’empatia intesa soprattutto come entrare in contatto con il dolore e la sofferenza altrui (anche a volte, purtroppo, riconoscendo che non si può fare nulla…). Questo è qualcosa su cui investirei tutto quello che ho, perché se da un lato si ha sempre più la possibilità di conoscere quello che succede nel mondo grazie ad esempio ai social network (pensiamo alla ripresa del conflitto tra Israele e Palestina che è diventato il conflitto più social mai avuto), se però non siamo pronti e disposti a empatizzare con le persone diventa difficile progettare. E quando il marketing entra in maniera arrogante sulla progettazione si va a perdere il valore dell’empatia, perché il marketing impone di lavorare velocemente e di avere dei risultati subito, mentre empatizzare vuol dire rimanere in attesa e ascoltare i bisogni delle persone.
Ci consigli un disco, un libro o un film che aiuti a entrare in contatto, in empatia, con quello che è la cultura africana oggi?
Come film ne consiglio uno che tratta temi abbastanza tragici in modo “divertente” – si chiama The Ambassador ed è un documentario danese in cui un giornalista acquista illegalmente le credenziali per diventare un diplomatico liberiano della Repubblica centrafricana. Rosso di capelli, bianco, nordico, si presenta vestito come un colono degli anni ‘30, con stivali, ombrello etc. e “vive” e “recita” tutta la corruzione legata alla produzione di diamanti centrafricana, costruendo in accordo con le persone locali una fabbrica di fiammiferi che usa come copertura per esportare illegalmente diamanti! Sono morte anche un paio di persone durante le riprese e, alla fine, naturalmente il regista è stato bandito dalla Repubblica. È un film che ben rappresenta le contraddizioni e le “assurdità” del continente africano.
Il disco mi ha messo un po’ in difficoltà: meglio le sonorità africane “tradizionali” o la cassa dritta delle banlieue francesi? Alla fine ho scelto un compromesso: Fatou di Fatoumata Diawara che, in modo irriverente, porta l’Africa in Francia e abbraccia la musica a 360°: ha fatto un album con Blick Bassy, ha cantato con i Gorillaz e ora vive sul lago di Como! A proposito di stereotipi, ribalta quello che vuole la cultura africana come “sedentaria” in Africa mentre con l’immigrazione si sposta e contamina altre culture.
Come libro scelgo quello di un fotografo e giornalista con cui abbiamo collaborato, Sergio Ramazzotti, che si intitola Vado verso il Capo. 13.000 km attraverso l’Africa che, come si evince dal titolo, con un taglio giornalistico racconta tutta l’Africa.
Sei appena tornato dal Senegal dopo un anno di stop a viaggi e cavalcate sui pickup. Cosa ti ha smosso dentro? Quali sensazioni e qual è la fotografia/storia più bella che ti sei riportato a casa?
Devo premettere che per me non viaggiare è stato davvero come perdere l’equilibrio: io ho scelto di vivere in provincia, a Prato, perché ci vivo bene, però ci vivo bene anche perché non ci sono mai! Quindi non viaggiare mi è mancato veramente tanto. Tornare a farlo è stato emozionante (la notte prima non ho dormito!) ed è stato divertente anche perché il Senegal non aveva nessuna limitazione anti-Covid ed è sembrato un salto indietro di due anni. Non c’erano le mascherine ad esempio, anche se noi le portavamo avendo dei protocolli di sicurezza piuttosto rigidi e sentendoci un po’ a disagio.
È stato bello anche perché erano 3 o 4 anni che non viaggiamo tutti i soci insieme. Tra le storie di questa ripartenza ne ho una incredibile, che mi ha fatto piangere. Una premessa: mio fratello, oltre a essere uno dei soci, è il Responsabile dello Sviluppo Tecnico ed è quello che si relaziona con tutti i fornitori locali da cui acquistiamo tecnologia e con cui sviluppiamo relazioni, spesso forti e durature. In Senegal abbiamo un fornitore che lavora con noi da 5 anni ed è diventato anche un amico, in particolare di mio fratello con cui ha stretto il rapporto più forte. Ovviamente lavorare stabilmente con noi come fornitore tecnologico lo ha aiutato nel tempo a consolidare il suo status professionale. Ora ha avuto il secondo figlio e lo ha chiamato Amadou Giorgio Keibe, gli ha dato il secondo nome in onore di mio fratello! A noi questa cosa ha emozionato in una maniera incredibile. Gli abbiamo voluto fare un regalo, anche se cercare a Dakar il regalo giusto per un bimbo di un mese non è un’impresa semplice, e quando lo abbiamo incontrato tutti lo chiamavamo naturalmente Giorgio!
Questo ti fa capire l’importanza, nel nostro lavoro, delle relazioni locali.
I temi sui cui si dovrebbe puntare per creare un futuro e una società più sostenibili, vista anche la tua rubrica su Instagram, L’insostenibile?
La rubrica è nata dal fatto che sempre più aziende ci contattavano per dei progetti di puro marketing, con l’unico obiettivo di mettere un “bollino colorato” su questi temi, usando un linguaggio e una comunicazione che tendeva a nascondere i problemi e a magnificare solo i risultati raggiunti e il “funzionante” a tutti i costi.
Ciò detto, per rispondere alla tua domanda, il tema centrale per un futuro più sostenibile per me, a costo di essere ripetitivo, è quello del trasferimento della conoscenza. Noi ci impegniamo solo in progetti open source, non solo rispetto all’output e all’utilizzo, ma anche rispetto alla progettazione. Puoi progettare tutti i software che vuoi, ma se non li co-progetti con gli utilizzatori, saranno sempre “oggetti” che non funzionano. Nelle zone rurali poi devi abbattere il livello di tecnologia, lavorare in pieno low-tech, e appunto trasferire conoscenze. E poi devi accettare che, quando sei sul campo, l’ordine di priorità può cambiare e, rispetto ai bisogni reali, possono diventare improvvisamente essenziali cose che non pensavi lo fossero. Lì devi essere responsabile e renderti disponibile a portare le conoscenze che sono necessarie.