Città futuribili

2021-04-26T13:04:09+02:00Aprile 25, 2021|20(21) grammi, Città|

Milanese d’adozione, Stefano Daelli è Strategist e soprattutto una delle “teste” dietro al progetto in tandem Città dal Futuro – studio su come si stanno trasformando le metropoli (anche) post-pandemia, e Segnali dal Futuro – newsletter collaborativa per allenarsi a immaginare il futuro (se non vi siete ancora iscritti, consigliatissima). Con lui abbiamo chiacchierato dei miti delle città, di nuovi modelli e stili di vita urbana (o no?) e di idee folli che forse ora sembrano un po’ più possibili.

Città a 15 minuti, Southworking, vita “post-urbana” dei cosiddetti “city-quitters”. La pandemia pare aver messo in crisi i vecchi modelli delle metropoli: quali problematiche sono emerse in modo più dirompente? Come sta cambiando la vita dentro (e fuori) dalle città?
Rispetto alla pandemia, gli elementi di crisi che sono emersi occupano, secondo me, due piani: un piano individuale e un “piano pianeta” – due estremi che fino a ieri nell’equazione della città non erano più di tanto considerati.
Sono entrati in crisi quelli che anche in Città dal Futuro chiamiamo i “termini e condizioni della città”: la pandemia ha mostrato come le condizioni che dobbiamo sottoscrivere implicitamente per poter accedere a tutti i benefit che offre una metropoli, sono costruite in realtà in modo da perderci sempre. In primis, in qualità della vita, per cui per avere successo e avanzare socio-economicamente e culturalmente devi sacrificare parte della tua vita privata: devi andare a tutti gli eventi possibili, parlare con tutte le persone – anche quelle che ti stanno antipatiche – e in pratica trasformare la tua quotidianità in un grande esperimento di pubbliche relazioni a cui dedicarti al massimo. La pandemia e le limitazioni hanno fermato questo ciclo attrattivo, facendo emergere chiaramente come ciò che veniva richiesto in cambio della promessa di una vita frizzante, fatta di incontri interessanti, era effettivamente troppo e sbilanciato a vantaggio della città o di pochissimi individui. Senza parlare della questione del costo e degli affitti esorbitanti a fronte di superfici minuscole, oltre che della dimensione ambientale. A livello individuale si è creato quindi del disincanto rispetto alla retorica delle grandi metropoli, secondo cui “se vieni qua e ti impegni, i tuoi benefici si moltiplicheranno n per in base allo sbattimento che ci metti”.
Strettamente connessa a questo aspetto, è la crisi del “piano pianeta”: non è che le città hanno cominciato a inquinare di più durante la pandemia, ma fermandoci a lungo e guardando più da vicino la dimensione urbana, siamo diventati tutti più consapevoli che, per produrre il capitale finanziario-economico e culturale-intellettuale tipico delle metropoli, viene consumata una quantità gigantesca di risorse. E forse il bilancio non è in positivo. Anche in questo caso si è rotta la membrana d’incanto secondo cui “se le città vanno bene, il pianeta va bene”.
In mezzo a questi due aspetti, l’altra problematica forte che è emersa è quella delle disuguaglianze incredibili presenti a livello di società. Ci sono sempre state – tant’è che si parla di gentrification e non di pandemification – ma erano meno evidenti nel dibattito pubblico. È invece diventato chiaro che, a fronte di opportunità rese disponibili a una determinata fascia di persone, esistono altrettante sacche di povertà. Tutta la questione, ad esempio, dei lavoratori essenziali di cui si è parlato soprattutto nel primo lockdown è un po’ figlia e un po’ causa di questi meccanismi che si sono creati nel tempo: le persone che mandano avanti dal basso le attività che fanno funzionare le città, in realtà beneficiano pochissimo del valore che queste generano.
Penso non sia un caso che, a livello istituzionale e politico, abbiano attecchito proprio in questo momento i modelli che mettono insieme questi tre piani – individuale, pianeta e sociale  – come Amsterdam che a marzo 2020 ha pubblicato uno studio sulla Doughnut Economics applicata alla città.

Esistono dei modelli che funzionano già? Qual è l’esperimento più interessante (o folle) che hai visto nascere a seguito delle restrizioni per il Covid-19?
È una questione complessa perché i modelli generici sono talmente generici e astratti che potenzialmente sono framework che puoi applicare ovunque. La Doughnut Economics di Amsterdam potresti idealmente applicarla anche a Meda.
Scendendo di un po’ di livelli invece ed entrando nel concreto, come nel caso della “città a 15 minuti”, si vede come un modello che funziona a Parigi diventa assolutamente inapplicabile negli Stati Uniti, dove la conformazione delle città “a blocchi” porterebbe di fatto a una ghettizzazione per razza.
Sicuramente pensando al contesto europeo e in particolare all’Italia, “la città a 15 minuti” è molto meglio del contesto che abbiamo vissuto fino ad adesso: l’idea di rendere disponibili al cittadino i servizi per lavorare, la pubblica amministrazione, l’accesso a beni fondamentali, nell’arco di 15 minuti a piedi è un bel passo avanti. Il Comune di Milano sta in questo senso decentrando i propri uffici e portando avanti la politica del near working in modo che i propri dipendenti possano vivere e sostenere la dimensione del loro quartiere.
Dall’altra parte però è anche vero che abbiamo passato l’ultimo anno nella “città a 15 secondi”, che era casa nostra: a 15 secondi c’era la formazione, il cibo, il divertimento, lo sport – e lì ci siamo resi conto che, in realtà, il motivo per cui veniamo o rimaniamo in città è proprio la possibilità di perdersi, dell’incontro serendipico, di mischiarsi. Questo è l’aspetto che, personalmente, riesco ad apprezzare meno del concetto della “città a 15 minuti”. Probabilmente è solo una questione di naming: se la chiamassero “città peripersonale”, dove ovunque ti muovi hai tutti i servizi essenziali intorno a te, magari mi funzionerebbe di più. Citando un’esperta londinese di city making, il motivo per cui io scelgo la città è potermi immergere in un quartiere sempre diverso, incontrare gente “strana” e venire in contatto con tanti stimoli differenti.
Per chi, per il proprio sostentamento, dipende molto dalla città e continua ad averne fiducia, la “città a 15 minuti” è il modello perfetto. Il contro che si porta dietro è però un forte controllo sociale in un contesto ristretto di micro-comunità, soprattutto se lo si paragona all’identità “internazionale” che hanno sempre avuto le metropoli: la selling proposition di avvicinarci al mondo.
Creare una bolla è sempre camminare su una lama di rasoio molto sottile: dove finisce l’empowerment della comunità e dove iniziano la ghettizzazione e il controllo?

 Rispetto al tema della sostenibilità, è vero che in città si sprecano moltissime risorse, ma è anche vero che si usa meno l’auto e si vive in case più piccole in confronto alla vita in provincia. Come si risolve questo dilemma?
Le città di oggi sono costruite come macchine inefficienti – dal punto di vista del risparmio energetico, della gestione delle acque, dello spreco del cibo. Il sogno è arrivare a città d’impatto positivo, non so quanto sia però un obiettivo raggiungibile o una mission d’ispirazione alla Elon Musk. Sicuramente il fatto di arrivare a città a saldo zero è possibile e già ne esistono, un esempio su tutti è il nord Europa.
Sono d’accordo che comunque la soluzione non sia andare a vivere tutti in 500 metri quadri in Monferrato, a meno che non si scelga di rinunciare a qualcosa. Esiste oggi un filone di ragionamento che è l’estremo dei city-quitters o del downshifting urbano e che in Città dal Futuro abbiamo chiamato “la città irregolare”: nel momento in cui non hai bisogno della città per sopravvivere e contemporaneamente sei molto disinteressato al futuro della città, allora ti re-immagini in contesti di auto-organizzazione dal basso, senza centro, seguendo modelli di micro-community legati magari al mondo autarchico-anarchico. Sono fenomeni che ci sono sempre stati, ma nell’ultimo anno si è iniziato a pensare anche delle idee più pazze: “ma forse è possibile”. Se fino alla pandemia il cono dei futuri per la città contemplava come unico argomento di discussione ospitare le Olimpiadi o meno – per Roma, Milano, etc. – oggi riusciamo a vedere come plausibili molte altre traiettorie. Il presente si è frizzato, il passato è qualcosa di molto lontano e l’unica cosa che improvvisamente è diventata molto reale è il futuro.

Un “segnale” bello che ti porti da questo presente?
Anche se per motivi non positivi, le persone si sono trovate a dover fare molta più introspezione: a parte i dati di download, ad esempio, delle app di meditazione, non mi è mai capitato come negli ultimi sei mesi che mi chiedessero così spesso consigli su libri da leggere (sono laureato in Filosofia). A parte il momento di rivincita personale, lo trovo un segnale indicativo. Poi magari quando ci riaprono andiamo tutti lo stesso a fare serata al Magnolia!

Le fonti d’ispirazione di questo 2020-2021?
Sicuramente il lavoro fatto dalle Brigate Volontarie e il loro modello di auto-organizzazione, grazie al quale sono riuscite a creare un’infrastruttura non solo di assistenza, ma anche logistica, da far impallidire chiunque. Il modo in cui sono state in grado di attivare competenze ed energie ha fatto capire quanto sia necessario ripensare le modalità di collaborazione tra la pubblica amministrazione e il cittadino, mirando a renderle più snelle e semplici e al tempo stesso più chiare e strutturate. Contemporaneamente, questo esempio ha sollevato anche la domanda: “ma perché dovrebbe farlo il cittadino nel suo tempo libero?”, quando la pubblica amministrazione dovrebbe già provvedere a fornire dei servizi basilari, soprattutto se servono a proteggere le fasce più deboli della società.
Il secondo caso è quello di Regenerative Futures, un progetto di speculative design di Irrelational Labs che ha visto protagonisti 50 ragazzi e ragazze di massimo 20 anni: attraverso un finto avamposto di ricerca in Antartide e un’esperienza di gaming digitale, hanno portato avanti un esperimento volto a immaginare una società basata sulla sostenibilità, l’inclusione e l’uguaglianza economica. Ne sono nate una serie di idee talmente folli da essere possibili, sia nei modelli di relazione tra le persone sia di auto-governo della comunità, tanto da offrire input utili a come organizzare i nostri di quartieri.
Il terzo tema che sta nel mezzo e mi sta molto a cuore è quello della cittadinanza digitale. In particolare, il progetto Terra Incognita portato avanti da Civic Signals con la città di New York per studiare come si costruisce uno spazio pubblico digitale. Nel momento in cui ci siamo dovuti ritirare dallo spazio fisico e ci siamo ritrovati tutti online, ci siamo resi conto che lo spazio pubblico digitale non esiste o comunque non è ben governato. Loro hanno avuto la capacità di mescolare insieme i principi della progettazione collaborativa e dell’attivismo civico, dando forma a un manifesto per costruire spazi pubblici digitali: questa è la nuova frontiera da immaginare per progettare città veramente desiderabili. Anche se esistono già delle esperienze e sperimentazioni dal basso, a partire dalle Social Street, per il legislatore è una dimensione molto lontana. Non tanto per una questione tecnologica, ma perché si tratta di creare una nuova ontologia attraverso cui pensare lo spazio pubblico digitale. Come si fa è ancora tutto Far West.